
12/11/2014
La motivazione
Questo elemento è centrale. Un ambiente di lavoro degradato, con colleghi con i quali non si ingrana, una posizione che non ci soddisfa, un trattamento economico inadeguato, l’incertezza del posto, la non percezione del proprio ruolo e del proprio contributo al sistema, sono alcune delle cause per cui ci si può sentire demotivati.
Lavorare sulla motivazione è oltre la sfera del formatore, perché attiene a meccanismi, procedure, processi, equilibri che sono aziendali e che quindi andrebbero trattati con un programma di azione più ampio.
Però la motivazione dipende anche da noi, ed è lì che il formatore deve diventare una specie di prestigiatore e lavorare sul “qui e ora” per escludere gli elementi perturbativi e lasciare che gli stimoli positivi dell’azione formativa riescano comunque a passare. Ma coloro che sono difficili da motivare non parteciperanno comunque e troveranno modi disparati per essere fuori registro rispetto agli altri. Dovrebbero essere messi di fronte alle loro aspirazioni e responsabilità per ricondurli ad un atteggiamento più adeguato, ma non è facile trovare l’alchimia giusta.
Gli altri invece, quelli che comunque hanno un approccio al lavoro normale, potrebbero scoprire cose insospettabili di loro stessi, del loro modo di lavorare in team, delle dinamiche che per anni li hanno condotti a ripercorrere le solite strade e della possibilità di rivoltare il rapporto che ha con un collega, cominciando a fare il primo passo.
E’ molto bello quando si vede qualcuno che afferra l’occasione e inizia a fare il “proprio centimetro” (liberamente tratto dal film “ogni maledetta domenica” (
http://www.youtube.com/watch?v=X3kSC9aIefU) indipendentemente da cosa stanno facendo gli altri attorno. In quel momento le risorse che ognuno ha sono messe in gioco ed amplificate, finalizzate per cercare di raggiungere un obiettivo. Si ha la sensazione di fare qualcosa di utile, di duraturo
La non motivazione (burn out)
E’ obbligo dell’ECM fare il piano di formazione annuale, quindi siamo abituati a cercare quali argomenti dovranno essere trattati nell’anno che verrà, e questa ricerca parte spesso dall’analisi del contesto, dalle richieste dei clienti o da analisi di benchmarking.
In ogni caso la domanda di fondo è: quale formazione dobbiamo agire per poter migliorare gli aspetti connessi con la nostra attività lavorativa quotidiana? Nel 99% dei casi la risposta è di tipo tecnico. Un corso di ematologia, di risk management, sulla root cause analysis…
Root cause analysis. Il titolo è stato un best seller ministeriale: un corso FAD (un pdf, non esattamente il ns. archetipo), con tantissimi crediti, con un semplice questionario (facile trovare le risposte esatte su internet), a domicilio e gratuito. Un corso che trattava un argomento di interesse oggettivo: la ricerca della causa dell’errore. Bene io ho cercato di capire la causa di alcuni errori eclatanti che hanno avuto risonanza anche sui media, come l’infermiera che ha trasfuso latte, e mi sono chiesto quale formazione potrei organizzare perché questa tragedia non occorra più. La risposta mi è venuta da una psicologa, in assoluto i migliori formatori. Non si tratta infatti di spiegare come trasfondere, purtroppo lo sapeva fare, né cosa evitare, lo sanno davvero tutti che non si trasfonde il latte. La risposta istintiva è: resta con il cervello acceso! Perché non c’è nulla da insegnare, anzi al contrario c’è da imparare. Imparare cosa stia pensando quella persona mentre opera al letto di un paziente. La psicologa mi ha suggerito che forse era in “burn out”, un meccanismo di difesa psicologica che interviene nel caso di lavori stressanti, dove il soggetto è a contatto con il dolore e la sofferenza, dove l’ambiente non è adeguato, i colleghi sono critici, i capi incomprensibili, il futuro incerto, tutte cause che portano ad una reazione di attacco o fuga dalla realtà.
Non c’è solo questa situazione ovviamente: ho avuto testimonianze di incidenti sul lavoro che credevo potessero accadere solo nei cartoni animati. Il trait of - di tutte queste situazioni però è la persona, non la situazione “rischiosa” o “difficile”, perché a mente fredda, cioè lucida e quindi “accesa”, non c’è nulla da spiegare.
Sempre istintivamente mi verrebbe da fornire un dispositivo che registri il livello di attenzione, una specie di spia del serbatoio in riserva, che dicesse a costoro: FERMO! Non sei più tu, sei pericoloso per te e per gli altri. Un po’ come quando guidi e “devi” mandare un sms al tuo partner, non si frappone tra te e l’urgenza alcun filtro sul pericolo di fare male o fartene.
La cosa che si può invece fornire è un "sistema formativo di sistema" nel quale tutti siano coinvolti e consapevoli che c’è quel tipo di rischio. Ma è un percorso sulle PERSONE, non sui pdf. E’ un percorso intrinsecamente complesso e lungo che attiene anche alla “accountability”, cioè al fatto che poi la responsabilità di una data azione deve necessariamente ricadere sull’attore, purché messo nelle condizioni migliori di operare.